Salvatierra en Italia

Lo show di Sabrina Love non era ancora cominciato e Daniel faceva zapping tra i sessanta canali pirata della sua tv via cavo, lasciando passare appena pochi secondi tra un’immagine e l’altra. Un tizio che parla, il fondo del mare, colli di giraffe, un inseguimento di macchine, donne del Venezuela che discutono, lava vulcanica, autostrade spagnole all’alba, il volto di un uomo terrorizzato, due mani che decorano una torta. Passiamo quin. Tu non potrai mai. Most incredible and amaz. Tastrofe degli ulti. Allora il vecchio.1 Un taglio splendido. La pianura del. Fermati, Laurita. Una storia unica a tutta velocità, in cui il sole della cartina meteorologica satellitare brillava sul documentario del Kenya, dove i leoni si accoppiavano mostrando i denti nella stessa posizione dei due americani del canale pornografico che mostravano anche loro i denti e chiudevano gli occhi quasi volessero dimenticare l’immagine del telegiornale di quegli iracheni che puntavano i loro mitragliatori su quel portiere argentino che cadeva sulle ginocchia e rivedeva allora tutta la sua vita in un lampo a partire dai cartoni animati della sua infanzia. Una storia infinita che Daniel accelerava quasi cercando di affrettare il tempo che lo separava dal programma di Sabrina Love. Si tratteneva solo sul bacio di qualche coppia che cominciava a spogliarsi nella penombra azzurrata di un film di serie b, sperando che le riprese del fuoco nel caminetto rallentassero un po’ e non sfumassero subito nella facciata di un edificio in cui l’attrice il mattino seguente si sforzava di mantenere il lenzuolo all’altezza delle clavicole.
Pedro Mairal, Consumidor final, Buenos Aires, Bajo la luna nueva, 2003.
Traducido al italiano por Giuseppe Pisano
*
TUTTI I GIORNI
Gli occhi ritrovati
nel fondo della tazza, le tasche,
i piatti, la vergogna,
l’ombra grigia sotto i vestiti,
l’odore a colonia lasciato negli ascensori,
le grida di un coito che si spandono
come colombe grigie, per le terrazze,
per vuoti d’aria e di luce fino agli uffici,
la gente che si lava tra le mattonelle,
che si sveglia nella metropolitana reclusa all’improvviso
con solo aprire gli occhi,
la gente legata
da sporchi, infiniti fili neri,
parlando al telefono dei loro animali da compagnia,
di parenti in sala operatoria
gente scavando un pozzo nell’asfalto,
cercando tubature come vene,
gente piena di sonno, di silenzio,
con la paura di svegliare la storia insonnolita,
gente usando il linguaggio come un coltello scuro,
un coltello consumato, sbucciando una mela,
gente che odora a fango copioso di provincia,
che prega con violenza e alla sera
accende fornelli blu.
*
DAL BARBIERE
Nella luce dello specchio
tagliano i capelli a quel che io sono.
La grande forbice che ritaglia il giorno
sfiora la giugulare, sfiora la nuca
con il freddo metallico di un’arma;
e quel che io sono mi guarda perché lo sa,
perché ha il cuore sottosopra.
La voce del cronista
annuncia una giocata pericolosa,
il parrucchiere guarda lo schermo,
(la sua squadra sta perdendo)
mi fa una domanda,
io mi vedo dire che non mi piace il calcio,
vedo come mi crescono le orecchie
e in un clima glaciale,
la forbice mi sussurra il suo taglio.
*
UNA PESCA
Mordere l’estate,
mordere il sole intero
a 1,80 al chilo.
Questa pesca appena arrivata a casa
fu solo un sogno dell’albero nascosto
assecondato col fertilizzante,
in seguito fu fiore e frutto verde solamente,
protetto dalle piaghe e dalle gelate
con cinque pesticidi,
ingrossato dalle piogge e dall’irrigazione a goccia,
raccolto da Pablo Luis Ojeda,
originario del Rio Negro
che lascia cadere su un materasso di gommapiuma
il suo corpo dolorante tutte le sere.
Caricata su un camion che avanza sotto il cielo
è maturata questa pesca con il viaggio
poi è arrivata al mercato,
ha attraversato le mafie,
è andata a finire in una cella frigorifera
che le ha fissato il colore
e l’ha conservata per quattro mesi
vicino a San Cristobal
fino a essere comprata dai Supermercati Disco,
e l’hanno portata alla succursale 14
settore frutta e verdura self-service
dove l’ho scelta, l’ho messa in un sacchetto, l’ho fatta pesare
l’ho buttata nel carrello
accanto al pane Fargo, ai petti di pollo,
vicino allo Skip Intelligent e al formaggio
l’ho portata alla cassa, le hanno letto
il codice a barre,
l’ho pagata, l’ho rimessa in un sacchetto di plastica,
l’ho portata camminando fino a casa,
attraversando il viale, costeggiando l’ospedale,
tra ciechi, barboni, poliziotti,
sono salito con l’ascensore
ed è arrivata al piano di lavoro in marmo senza ammaccature.
Quindi l’ho liberata dai due sacchetti,
le ho lavato il pesticida nel rubinetto,
le ho lavato tutta la stanchezza del camion, il fumo,
la notte delle mani di Pablo Luis Ojeda,
le ho tolto l’etichetta della marca,
e l’ho morsa con voglia di ucciderla,
l’ho assassinata con denti, mandibole e lingua,
e nonostante la chimica, la distanza morta,
nonostante la lunga catena intermediaria,
mi sono ritrovato laggiù nel fondo del suo sogno giallo
con quel fiore primo che profumava il vento.
*
Tutte le scuole portano i bambini in gita. I genitori firmano un permesso e l’alunno può quindi andarsene con tutti i suoi compagnucci allo Zoo, al Planetario, al Museo di Scienze naturali, alla “Rural”, a vedere gli animali della fattoria, o alla Fiera del Libro, sotto l’occhio di due o tre maestre sull’orlo del collasso.
Tra le uscite di gruppo i bambini di solito preferiscono quella alla Rural. Si possono prendere degli adesivi, le hostess sono carine, si vedono degli animali – come i maiali – dalle dimensioni genitali sorprendenti, le vacche mollano senza pudore buse sonore e fumiganti. Tutte cose che ai bambini piacciono tantissimo.
Ma alla Fiera del Libro non ci sono di queste attrazioni. In effetti, per me, quella gita è stata un momento traumatico della mia infanzia.
Ricordo che “la Serrano”, una delle professoresse che ci accompagnava, fumava come una ciminiera (all’epoca gli insegnanti fumavano ancora vicino agli alunni). Quell’anno la Fiera era dedicata alla Divina Commedia. Non è che il programma ci entusiasmasse molto. All’ingresso una scritta in italiano recitava: “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. Che cosa dice lì, professoressa? E la Serrano tradusse per noi.
Ci fecero girare tra gli stand dei libri, con quella strana idea che la cultura si trasmette per osmosi. Era come guardare delle copertine di videocassette. Perché siamo venuti qui, professoressa? La Serrano non rispondeva. Gironzolavamo per i padiglioni: non c’erano animali, né omaggi, solo dei dépliant e degustazioni di Fernet, che non era per noi bambini.
La quinta volta che chiedemmo alla Serrano perché eravamo lì, si scocciò, si voltò e con il mozzicone in bocca ci disse: “Perché vediate tutti i libri che dovrete leggere nella vostra vita”. Ammutolimmo, guardando quell’oceano di libri che ci circondava. Ricordo di aver pensato: “Io non ce la faccio”.
Dev’essere per questo che ogni anno l’idea della Fiera mi opprime. Ci vado lo stesso, cerco cose molto specifiche (libri introvabili o conferenze di autori), ma cammino di fretta, come se temessi di rimanere schiacciato da quello tsunami di libri che non si finisce mai di leggere.
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